Del parlare maceratese

Ripenso spesso, e con affetto, alla meritoria ristampa delle opere del professore maceratese Flavio Parrino, scomparso nel 1994, dedicate allo studio linguistico e filologico della lingua maceratese e scritte tra il 1956 e il 1987.
Si attendeva, in verità, da tempo, un simile strumento, di facile reperimento (rispetto alle pubblicazioni originali) e che rendesse giustizia ad un parlare a torto, troppe volte, considerato una semplice storpiatura dell’italiano.
Già in passato, infatti, lavorando sulla poesia, mi ero dovuto scontrare con un linguaggio - il maceratese, appunto - di difficile utilizzo all’interno di un sistema linguistico come quello che sovrintende la versificazione: al confronto con il milanese di un Loi o di un Porta, o col napoletano di un Di Giacomo, il maceratese sempre mi costringeva ad una fuga tra le braccia dell’italiano.
Ho trovato una sorta di soluzione nel fissare, nella lingua nazionale, termini di chiara derivazione dialettale come grascià diventato grasciano (è una licenza poetica: le fonti direbbero grasciàro), ‘rzumiju trasformato in risomiglio, stutà in stutarsi; giungendo anche a coniare il neologismo pritudine, che sta per ignavia incolpevole, per inettitudine.
Ciò nonostante, restava scoperta - in me - un’esigenza più profonda, rappresentata dalla possibilità di pensare direttamente in maceratese, impegnandomi in una ricerca che mi conducesse ad un disvelamento delle fonti, per ritrovare in esse le radici più intime della mia scrittura.
Quelli della mia generazione, e più ancora quelli della generazione successiva, infatti, non godono il privilegio di cui Franco Loi riferisce nell’introduzione al suo Bach:
“Penso in italiano, parlo in italiano, scrivo anche in italiano. Ma quando scorre la musica delle mie memorie, quando voglio dare forma alle mie esperienze vengo sommerso dal milanese.[1]
La spersonalizzazione, l’omologazione generalizzata cui ci ha abituato l’ultimo scorcio di Novecento, ha un suo segnale indicativo anche - e proprio - nella confusione dei linguaggi, alla quale tristemente si lega anche lo smarrimento di un destino più segreto, di un senso più profondo, della coscienza stessa del vivere un’appartenenza, una radice, un’incarnazione.
Andando a caccia di se stessi, allora, si avverte - nella dicotomia tra il dire e il fare e, successivamente e quasi inconsapevolmente, tra il dire e l’essere – il bisogno di una concretezza esistenziale, di un axis: che può (e forse deve) aprire alla contaminazione, ma prima deve (necessariamente) apparire perché l’incontro si dia tra due essenze reali e non alimenti - feroce - il dubbio che si stia trattando di una fuga da sé, di una dispersione.
Nel linguaggio, il dialetto - che rappresenta la madre, almeno quanto l’italiano rappresenta il padre, ossia l’istituzione - assurge ad emblema di una riconquista possibile.
Flavio Parrino ne sviscera le dimensioni più segrete, le consonanze col latino, le dipendenze e le indipendenze dagli altri gergali marchigiani e non, con il tatto discreto di un amante che, proprio in virtù del suo immenso amore, sceglie di non far mai violenza all’oggetto delle sue attenzioni.
Pur tuttavia, proprio di un atto d’amore si tratta: mai, infatti, lungo la trattazione, si ha la sensazione di uno scivolare verso la pedanteria: nelle sue analisi, appare il volto della Macerata che non c’è più o che forse - più attendibilmente - giace al fondo delle nostre divine incoscienze[2], abilmente sommersa da un’italianità che poi, in realtà, esiste (ed è esistita) sempre e soprattutto soltanto nella volontà e nel desiderio. 
Scrive Parrino, da pag. 85:

“Il dialetto, lingua “di natura”, segue una norma che, malgrado le affinità, non coincide in tutti i casi con la norma della lingua “di cultura”. (...) Così lo scolaro elimina, prima o poi, nel linguaggio che userà a scuola e soprattutto nella scrittura, i vezzi dialettali più evidenti. (...) Può tuttavia affermarsi che nella pronuncia dei nostri giovani non si verifichi mai un perfetto adeguamento alla norma fonetica della lingua. Eliminate nella grafia, molte alterazioni sopravvivono, più o meno, avvertibili, nella pronuncia. (...) Il risultato, in questi casi, è che le inflessioni dialettali si impongono vittoriosamente, nella parlata e talvolta anche nella scrittura, sulla norma della lingua.”

Parrino - sia chiaro - non prende le difese del tempo che non c’è più, né tanto meno propugna l’uso del maceratese a svantaggio di quello dell’italiano: il suo approccio è pur sempre quello del linguista rigoroso che si limiti discretamente a registrare gli accadimenti e le trasformazioni. In un punto, indicativo di questa sua innata discrezione, afferma:

In effetti, gli schemi tradizionali della vita sociale nel nostro territorio stanno infrangendosi con straordinaria rapidità: istituzioni ed abitudini di vent’anni fa sono divenute estranee alla presente generazione. Sarebbe assurdo condannare o contrastare questo mutamento, che dobbiamo limitarci a registrare, e ozioso abbandonarci al rimpianto di un mondo sano e schietto che se ne va per dar luogo a un mondo diverso, che finirà per trovare anch’esso la sua sanità e la sua schiettezza.” (pag.35-36)

Pur tuttavia, contemporaneamente, proprio questo suo tenersi a  bada risveglia, anche in chi - per fattori anagrafici - non può averne, immagini di una “sensibilità diversa dalla presente”, che riaffiora, in tutta la sua virginea e potente delicatezza, dagli esempi portati: ad esempio, lu carru mattu per indicare l’Orsa maggiore, o la  ‘ndurmindina per dire del sonnifero, o ancora lu pròsperu per nominare il fiammifero; come anche le citazioni di costruzione delle frasi in forme che la norma italiana ripugna. E’ lui stesso a rilevare che

“quello -pensiamo- era il linguaggio di una società patriarcale, legata alla terra, intenta ad attività economiche casalinghe e paesane, fatta di gente saggia, semplice, frugale, tenace negli affetti e nella fatica; ed anche superstiziosa, retriva, inesperta del leggere e dello scrivere, ignara del mondo al di là di Loreto o, nel migliore dei casi, al di là di Roma e della Maremma, di facile contentatura nel divertimento, nel cibo, nel vestito.” (pag. 37)

Di quel casto ritegno si avverte, oggi, come un rimpianto che, certo, il Parrino del 1963 (a quell’anno risale lo scritto sopra citato) non avrebbe potuto sospettare, nelle necessarie diversità del mondo di trent’anni dopo; intendiamoci, se ne avverte un rimpianto che è pari al rintracciamento di se stessi, nel caos delle voci e delle tendenze che assillano il nostro presente; un rimpianto di quella franca robustezza, di quella bella ingenuità...
Forse nessun’altro libro sulle costumanze maceratesi, meglio di questo, riesce ad accendere un’attenzione memoriale (e non solo, pertanto, didascalica o sentimentale)  nei riguardi del maceratese.


[1] F. Loi, Bach, Libri Scheiwiller, Milano 1986.
[2] Idem. Le parole citate fanno parte del seguente contesto: “(C’è) la lingua della poesia, che è lingua segreta degli uomini tutti (...) Ma è anche la lingua di ciò che tace dentro di noi e che si rispecchia nell’infinito, la lingua delle nostre divine incoscienze.


Qualcosa ci è sempre rimasto, sempre mancato.

L’arte è una truffa. Per anni il mio amico Roberto me l’ha ripetuto: celiando, ma anche castigando non troppo segretamente il mio malcostume di scrivere (avesse sospettato quanto mi ci torturavo io...).

Quand’eravamo ragazzi, mi capitavano in sorte sempre compagnie di amici più grandi: di poco, magari solo un anno; ma sempre più grandi. Il mio senso di inferiorità, la vasta schiera di fissazioni e di complessi che mi portavo appresso, mi spingevano all’aumento fasullo dell’età: di poco, magari solo di quell’anno che mi restituiva alla pariteticità con gli altri.

Anche nell’antologia curata da Guido Garufi, sui poeti del Novecento nelle Marche, appaio come un sessantaquattrino: un biglietto da visita per me inconfondibile, che si raccorda agli anni in cui la mia scrittura è uscita per la prima volta dal cassetto, grazie all’interessamento di Guido.
Poi, a un certo punto, nella mia compagnia di amici solo gente più giovane, magari solo di un anno. Da quel momento, non ho più ottemperato all’adeguamento: mi ritrovo ad essere sistematicamente il più grande; man mano che gli anni passano, il più vecchio.

C’è una segreta dolcezza, nell’invecchiare. Una diversa serenità nell’approccio alla vita. Una sorprendente semplicità.
Nessuno deve avere paura di invecchiare: non solo perché non invecchiare significa fermarsi prima, ma proprio per questo sguardo disteso e semplice, per questa appropriazione di sé che a vent’anni si intuisce come un traguardo e si cuce come un vestito che però non si possiede.
Folle: dentro mi sento ancora un bambino, con tutte le precarietà e le paure del ruolo, ed anche con gli slanci improbabili verso la dimensione dello scherzo, della battuta, del gioco. Tiro tardi per il gusto di farlo, non mi lesino le passeggiate ai Luna Park, se mi portano in discoteca ballo convinto anche quando le ginocchia mi suggeriscono che sarebbe meglio darci un taglio. Vivo in pienezza gli attimi che da ragazzo trascuravo in funzione del tutto.  Il tutto, cioè, appartiene agli attimi: tento di dilatarli, ma senza scommessa. Limitandomi, cauto, ad accorgermene.
Roberto ne fa ancora parte.
Oggi la sua voce è quella di una preziosa conferma. Lui, del ’64 per davvero, là è rimasto: muovendosi, ma da dentro, verso la mia dimensione.


Qualcosa ci è sempre rimasto, amaro vanto, di non ceduto ai nostri abbandoni: eravamo spartani, in quegli anni. Non vivevamo con le pulsazioni in fronte. Ci davamo delle regole. Sapevamo della nostra reciprocità amicale, ma senza esagerare. Dribblandola dentro un corso cittadino, nell’ora rituale del passeggio. Convogliandola nella brigata, nelle prime conquiste difficili, nei che fai questa sera? di cui si costellano le terribili fragilità emotive dei ventenni, in attesa della risposta che si desidera.
Roberto è un tipo intelligente. Un’intelligenza strappata alle Lettere, dico io. Il suo stipendio mi rimbrotta che non c’è trippa per gatti, che gli è andata meglio così. Ma io non mi sono mai rassegnato alla mia impressione. Comunque sia, le nostre distanze si vanno colmando anno dopo anno, nonostante la separazione dalla culla.
Gli prese, qualche anno fa, la mania della storia: sarà che del periodo che ci è toccato in sorte un po’ tutti si sono presi – e si stanno prendendo – la briga di stendere copiose analisi, fatto sta che quelli della mia – della nostra – età guardano con maggior favore al passato remoto (il Medioevo, la Classicità…).
Siamo nati nel caldo degli anni ’60 – dopo l’avvento del Gruppo ’63 e a ridosso del ’68 -; abbiamo toccato con mano – anche se mano di bambini e poco meno che ragazzi – gli orrori del terrorismo nazionale e gli choc degli attentati alle stazioni e alle piazze, l’incubo dei frequenti sequestri di persona senza ritorno, le sparizioni nel nulla, i triangoli delle Bermuda, i compromessi storici e quelli isterici e tuttavia non la pienezza drammatica e tragica di una guerra in diretta (meglio, certo: meglio vivere in uno stato di pace attentato piuttosto che in uno stato di guerra dichiarato; però confuso, il nostro vivere: perché quello era un cancro devastante, dentro un organismo imbellettato); la storia di cui oggi altri parlano, con la freddezza della distanza, noi l’abbiamo sfiorata da vicino con un cuore che non filtrava gli eventi (a quell’età non si può).
Tutto quello che ci scoppiava intorno e davanti ci risuonava dentro in maniera fantasmatica: tutto vero e tutto, parimenti, come un incubo colossale. Come un film di quelli che non si potevano vedere quando, dopo Carosello, volenti o nolenti ci spedivano a letto. Ma a noi bastava, questa è la differenza. Poi ci pensava la vita di tutti i giorni a farci incamerare parole che non comprendevamo, di cui capivamo soltanto che non erano belle, che non rimandavano a lieti eventi. Da quelle macchie, da quei buchi, si tornava calpestando le vie del paese, fianco a fianco con i compagni di banco, trovando il gusto di una battuta fine a se stessa, ma fortemente sdrammatizzante: a quell’epoca, noi ragazzi eravamo ancora ragazzi. La scuola, marinarla era una sfida che, se veniva scoperta si cedeva, con l’onore delle armi, di fronte all’avversario che ci aveva stanato. Ai nostri diritti corrispondevano ancora i nostri doveri, piacevoli o snervanti che fossero. Non ci hanno abituati a sentirci il centro del mondo; non ci hanno allevati a pane e psicologia; l’unica pedagogia, di fronte a una marachella un po’ più vistosa, era quella del piede destro del genitore, che inesorabilmente centrava il Nord-Nord Est del nostro gluteo.
E quando è finita la scuola, è arrivato il lavoro. In quegli anni, con l’aria che tirava, c’era poco spazio per il divertissement intellettuale; scrivere era, agli occhi dei più, un vezzo strano (o una possibilità di essere mantenuti, anche se non era vero). Per i miei amici, poesia o non poesia, ero – mi dicono – un tipo abbastanza strano, fuori dalle mode, curioso. Quando me lo raccontano, oggi, mi sento male, anche se individuo le radici di quella stranezza, di quella inafferrabilità.

Io portavo il cappello: nemmeno adesso ne porto più, perché mi vergogno; ammortizzo i guasti del freddo con biriòle di lana; ho riposto in garage il Borsalino, i fez egiziani, la paglietta. Una volta, mia madre mi aveva schiaffeggiato in fondo al Corso della Repubblica perché ero uscito di casa con la paglietta; e intanto che me le dava di santa ragione, urlava e mi rimproverava davanti a tutti di espormi senza motivo al ludibrio generale… Avevo tredici anni non compiuti, dovevo (in teoria...) conquistare una compagna di scuola.
Una figura di merda.

Io portavo il cappello come un biglietto da visita, come un modo per uscire da me stesso e relazionarmi. Mi alzavo sopra la mia testa per atterrare coi piedi sulla terra. Siglavo i miei limiti corporali (se non stai al margine, come vivi il contatto?, dice Gianluca D’Andrea, che una volta di più, anche se parla d’altro, illumina quel mio comportamento).

Per quelli della nostra età, lavorare nel settore culturale o dello spettacolo era una panzana: quelli della tv ci parevano non veri, non di carne ed ossa. L’Università rappresentava – per insegnarci – un privilegio per geni; di certo non per i più, chiamati – tutti quanti – a barcamenarci inventandoci una dimensione, un’identità.
La nostra vita è andata di fretta, anche se l’abbiamo rallentata in ogni modo, imponendoci inconsapevolmente di non crescere: così, come diceva la canzone, siamo diventati vecchi senza diventare adulti. Ci voleva del talento, sottolineava la canzone: l’abbiamo avuto. O forse – vista dalla nostra parte – adulti lo siamo sempre stati, ultimi figli dell’educazione, del lei da dare ai più grandi, del permesso da chiedere in casa altrui; adulti nell’abbozzare, nell’attendere il turno che ancora non arriverebbe, se non ci fossimo imposti uno sguscio dall’altra parte del mondo (sia nel lavoro che negli affetti), pur di non venire meno agli insegnamenti ricevuti (e accolti) e tuttavia nemmeno alle nostre cellule che chiedono di che morte, con che nome, morire.
Eternamente di un’altra epoca, eternamente aperti al futuro. La nostra è stata davvero una generazione di mezzo: mezzo per i più vecchi al fine di esercitare indisturbati un potere; mezzo per i più giovani per sollevarsi e sottolineare un distinguo. Ma soprattutto noi, alfieri di ogni diplomazia – e qualche volta della rassegnazione – ci sentiamo di mezzo! Qualche volta, prima, ci sentivamo pure di troppo. Oggi il nostro mezzo finisce per tramutarsi nel cigno del dialogo possibile, il cigno della conciliazione. Ci sorprende pensarci ormai quarantenni, manifestare un discernimento sulle cose, finanche acchiapparci. Scoprirci cioè addosso un’esperienza che dà frutti.

Abbiamo fatto cose serissime continuando a giocare. Soltanto dopo abbiamo capito. Ma anni dopo, mica due giorni!
Il tempo della radio, per esempio: dal 1984 al 1996, con varie mansioni, ho trasmesso in un’emittente locale. Programmi d’intrattenimento la domenica mattina, radiogiornali, spazi con ospiti, trasmissioni per bambini, notturni, radiodrammi… il programma che ricordo di più e con più nostalgia lo facevo proprio con Roberto: era una saga di personaggi che sbucavano dalle nostre frequentazioni; talvolta avevano il nome di qualcuno che ci stava antipatico, modificato solo in parte – perché ascoltando capisse senza potersi rivalere; talaltra ne precisavano un difetto di pronuncia, o una cadenza; talaltra ancora ne venivano fuori scenette di fantasia, risolte sul come naturalmente le vicende si potevano smatassare, qualora il miracoloso mosaico delle coincidenze fortunose e fortunate si fosse inceppato.
In radio abbiamo fatto teatro, abbiamo imparato a parlare, a congetturare, a dialogare in modo formale, ci siamo innamorati e disamorati, ci siamo accostati al jazz e al rock, abbiamo imparato la pronuncia inglese e demistificato le notizie dei giornali: abbiamo conosciuto il mondo da una scatola.
Ci ha segnato così tanto, quel periodo, che la radio la facciamo ancora, a tempo perso, sotto mentite spoglie. Per non perdere il gusto di rimetterci in gioco, mentre abbiamo continuato a giocare.  

Eppure noi non ci siamo mai detti ti voglio bene. L’avremmo forse voluto, chissà… per vincere una remora, per appropriarci di uno spazio, per violare uno schermo. Tuttavia non l’abbiamo mai detto. Non dico solo io e Roberto: dico noi della nostra età. Tutti noi. Ce lo siamo dimostrato, semmai. Nella limpidezza delle piccole cose. Qualcosa ci è sempre rimasto, amaro vanto, di non ceduto di noi stessi. Ma quanto a responsabilità, anche laddove pareva non fossimo capaci di nulla, siamo divenuti solidi come rocce. Quanto a chiarezza d’intenti forse meno – ma non per causa nostra; o, semmai, per merito nostro, per questo nostro ostinato non concederci a strategie da tavolino, pessimi giocatori di Risiko, sebbene il gioco in sé ci piaccia molto. Lucidissimi, invece, sui presupposti e sulle conclusioni: direi quasi lapidari. Esaustivi. Diretti. Addirittura troppo scoperti, e senza un filo d’ingenuità. Ché non ci vuole un trattato per lamentare un dolore o per testimoniare un affetto. Non serve la scienza: serve la coscienza.
Così, Roberto può vivermi a cinquanta chilometri di distanza senza frequentarmi più assiduamente come quando eravamo piccoli: non cambia nulla. Non è il numero di occasioni condivise a cementare la nostra umanità. Non sono i cenacoli belli, i conversari infiniti, a dare corpo a una reciprocità. Quelli crollano come i muri, come le statue dei dittatori, al primo agitarsi consistente delle fronde. Chi ha in sé anche soltanto la certezza della propria precarietà, resiste. Incolume.  
Se giungesse, una buona volta, mi dico, la grazia di un vento riconciliato, rasserenato; se si aprisse ai nostri occhi in pienezza la potenzialità del nostro esserci così come siamo, ricchezza scambiata per povertà di mezzi – mentre per i più avveduti era ed è il pericolo maggiore per il mantenimento di logiche stantie, sì da ricacciarci sistematicamente indietro con l’indifferenza e l’oblio, mentre con altre età si sfoderano il migliore dei sorrisi e la più subdola delle premure -  io sento che davvero la nostra età saprebbe dire e dare molto, a questo tempo pieno di ferite.

Soltanto questo ci è sempre mancato.  

 

Allevatori di tarme? No, grazie.

Hai acquistato molti libri, come ho saputo, e pensi di essere ricco, pur non avendoli letti. Tu fai come quelli che accumulano grano e finiscono per nutrire le tarme. Infatti anche i libri generano le tarme e le nutrono, quando restano chiusi.
Così il Padre Isidoro di Pelusio, morto nel 449.
 Chissà cosa avrebbe scritto oggi che, nonostante un’alfabetizzazione di base capillare, il tasso di neoanalfabetismo di ritorno è – in proporzione – molto più preoccupante di quello di quando la scuola pubblica non c’era.
Mio zio aveva divorato tutti i romanzi di Cronin e di Steinbeck sin dalla giovinezza; aveva fatto la quinta elementare e, coi primi risparmi, si comprava dischi d’opera e librini. Mia zia, con lo stesso grado di studi, si dilettava invece di poesia, conoscendo a memoria tutta l’opera di Ada Negri ed esercitandosi nella scrittura di versi: semplici, ma metricamente perfetti. Per loro la lettura significava affrancamento, apertura al mondo, comunione con gli uomini degli altri paesi, dalle altre tradizioni; e poi, quelle stesse cose apprese le raccontavano a noi nipoti: facevano cultura non sapendolo. Sicuramente non speculandoci sopra. Non poca cosa, vorrei dire. Non ricordo quale scrittore abbia suggerito il divieto di leggere per invogliare la gente a leggere, ma forse – sia pure nel paradosso – potrebbe essere un’efficace strategia. Davanti agli sbuffi e alle stanchezze agoniche (non, purtroppo, agonistiche) degli studenti italiani che ho avuto la disgrazia di aiutare negli studi, ho da tempo situato l’immagine stupenda dei miei studenti stranieri alle prese con la lingua e la cultura italiana: pareva di essere tornati indietro, alla giovinezza dei miei zii. Facile individuare il motivo: venendo dall’estrema povertà, spesso da regimi totalitari, ancora più spesso in condizioni di totale analfabetismo, per loro che qualcuno gli insegnasse a leggere e a scrivere era il supremo atto d’amore, dopo quello d’aver ricevuto la vita. Me lo disse proprio un ragazzo afghano, che si piccava di chiamarmi “padre” e a cui io ribadivo – anche per non tagliargli le radici, sempre così importanti, così opportune – che semmai poteva chiamarmi “zio”. Mi tappò la bocca replicando: “Chi mi insegna la lingua è mio padre, non è mio zio”. Oltre il caso specifico, quanta giustezza, quanta illuminazione, nel mio allievo: chi insegna una lingua, una civiltà, è un padre di vita. Mette al mondo una seconda volta. Qualcuno, indubbiamente, ha tradito: non solo i nostri giovani italiani, così tristemente internettiani e televisivi da aver dimenticato anche le dolcezze di una piazza, oltre quelle di una libertà – nella lettura – che è anche progressiva dignità interiore, autocoscienza e capacità di giudizio; pure i loro maestri devono aver tradito, dimenticando quanto il loro lavoro sia, prima ancora, una vocazione alla paternità responsabile. Peraltro, non è ignoto a nessuno che l’amore per la lettura rinasce in tempi non sospetti, a vita inoltrata; cancellate cioè le ugge dello studio obbligatorio. Si entra in libreria come in un sacrario, si toccano le copertine (noi fissati annusiamo le pagine…)  e quindi si procede al primo miracoloso acquisto. Non è detto che non diventi una piccola inguaribile malattia. Purché poi, una volta a casa, si leggano. È vero, come dice Sgarbi, che la biblioteca comincia dove finiscono i libri che si sono letti. Ma è altrettanto vero che una biblioteca di soli libri non letti è come il granaio con cui abbiamo aperto questo corsivo: e nessuno può ambire ad essere un allevatore di tarme.